In questo periodo di crisi pandemica, mi sono reso conto di tutti i limiti che il modello di vita a cui siamo abituati ha dimostrato e ho iniziato ad interrogarmi su quale dovrebbe essere il ruolo dell’Architetto e il valore dell’Architettura dopo la pandemia.
Osservando ed analizzando alcune delle epidemie del recente passato possiamo di sicuro apprendere come l’architettura può aiutare a combattere la diffusione e favorire la proliferazione di malattie. Era il 2014 quando l’Ebola ha presentato un problema legato allo spazio: un virus altamente contagioso che sopravvive sulle superfici per quasi due settimane; mentre l’epidemia di tubercolosi XDR-TB del 2006 ci ha insegnato che negli spazi medici e non medici (gli spazi abitabili e abitati quindi) semplici adeguamenti possono aiutare. Aprire le finestre, aumentare il movimento dell'aria, introdurre filtri e accendere i ventilatori potrebbe fare la differenza tra sicurezza o malattia. Un focolaio di colera si è attivato ad Haiti nel 2010 e, per colpa dei rifiuti contaminati che venivano scaricati nelle acque sotterranee, ha trovato strada libera per la contaminazione attraverso le fonti utilizzate per bere, lavare e pulire trasformando un “disastro di emergenza” in uno “permanente”; fu solo quando medici e architetti iniziarono a lavorare assieme per costruire una struttura locale permanente che si prendesse cura dei pazienti, trattasse in sicurezza le acque reflue e i materiali pericolosi anche mediante un centro che gestiva i rifiuti che la crisi cessò e il recupero della situazione di controllo riprese piede.
Svuotati gli spazi collettivi come strade, piazze, parchi e centri commerciali, la vita si è trasferita nelle singole case costringendoci a fare i conti con la cellula dell’abitato: case, cucine, stanze, balconi, camere da letto e ripostigli, collocati all’interno di una desolazione a tratti affascinante come quella dei centri storici e a tratti terrificante come quella di molte periferie. L'attuale pandemia COVID-19 porta l'attenzione generale sul controllo delle infezioni al di fuori degli ambienti sanitari dove l’architettura e le politiche sociali fino ad oggi ha troppo spesso pensato solamente a luoghi dove “tornare” e non a luoghi dove “stare”.
Viviamo in celle piccole, male esposte, male areate, prive di spazi aperti o all’aperto, affacciate oggi ahimè su desolanti viste e prive di valenza estetica. Estetica intesa come il piacere della ricerca della bellezza dell’abitare uno spazio progettato rispetto alle esigenze specifiche di ogni individuo che lo abita.
Tornando alla questione pandemica, studi recenti tendono a dimostrare che il coronavirus è più stabile su materiali quali plastica e acciaio (fino a tre giorni) rispetto a tessuti porosi come cotone, pelle e persino cartone (meno di 24 ore). In questo caso la porosità di un materiale potrebbe quindi divenire un alleato. Che si tratti quindi di fornire ricambi d'aria costanti, progettare spazi favorevoli al controllo delle infezioni mediante l’utilizzo di differenti e più accurati materiali o costruire sistemi efficaci di separazione e recupero dei rifiuti, l'architettura può e deve fare la sua parte per combattere le pandemie mettendo in discussione le più consolidate linee guida che il sistema ha elaborato fino ad oggi per addentrarsi verso una nuova concezione dello spazio abitato. Oltremodo la vera sfida diventa pertanto rinnovare le unità abitative (oggi celle di isolamento) creando strategie di ventilazione innovative, creare arredi e spazi funzionali ai differenti utilizzi, concepiti per lo “stare” e progettare/riprogettare superfici resistenti ai patogeni che hanno contribuito la diffusione della malattia.
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Giugno 2020
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